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Rebecca Carollo​

Psicologa Forense

Da sempre con un forte slancio per l'analisi del comportamento criminale e la riabilitazione psicosociale di individui coinvolti nel sistema di giustizia e non, si è formata nel percorso in Psicologia Forense, acquisendo competenze nella valutazione del rischio e progettazione di interventi volti alla riduzione della recidiva e al reinserimento sociale.

Attualmente in formazione in ambito di esecuzione penale e gestione dell'offender nel contesto criminologico e penitenziario. Attraverso un approccio evidence-based si sta specializzando per contribuire alla comprensione delle dinamiche che inducono l’individuo a compiere azioni antisociali e alla realizzazione di interventi tailored approach quanto più efficaci possibile, forte del fatto che la riuscita risocializzazione sia un beneficio non solo per l’individuo, ma per l’intera società.

Parallelamente segue un percorso di tipo accademico come UA alle Cattedre di Criminologia e Psicologia Clinica Penitenziaria presso l’Università LUMSA di Roma, e come Tutor presso il Master di II livello in Psicologia dell’esecuzione penale ed offender management. In formazione presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Clinica Integrata presso l’Università LUMSA di Roma.

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Quali sono gli ostacoli psicologici più comuni che impediscono alle vittime di uscire da una relazione violenta e come possono essere superati?

Prima di entrare nel vivo degli ostacoli psicologici che impediscono alle vittime di uscire da una relazione violenta eÌ€ fondamentale approfondire il concetto stesso di relazione violenta, ancor meglio descritto dal costrutto di Intimate Partner Violence, il quale si riferisce a qualsiasi episodio di controllo, coercizione, violenza o abuso tra persone che sono o sono state partner intimi. Numerosi studi scientifici ed indagini statistiche effettuate delle organizzazioni internazionali per i diritti umani, dimostrano come questo tipo di violenza specifica abbia origine e tragga la sua forza dalla disuguaglianza tra i sessi e da una visione culturale che considera sin dai tempi antichi le donne inferiori e come “proprietà” degli uomini, intrappolate in ruoli stereotipati all'interno della famiglia e della società. Infatti, in alcuni contesti, seppur la situazione sia andata differenziandosi negli anni, tutt’oggi vi sono ancora donne che si trovano bloccate in situazioni di abuso proprio a causa della loro posizione sociale svantaggiata che le rende vulnerabili e prive di alternative per uscire da queste dinamiche.

Uno dei principali ostacoli psicologici che impedisce alle vittime di uscire da una relazione di questo tipo è identificabile con la dissonanza cognitiva. Questo fenomeno si verifica quando la vittima sperimenta una discrepanza tra cioÌ€ che vive e ciò che crede. Da un lato c'è quello che percepisce come “amore” nei riguardi del partner, dall'altro vi è l'esperienza reale di violenza e maltrattamento. Per ridurre tale tensione psicologica, la vittima spesso razionalizza il comportamento abusivo attraverso un meccanismo di accettazione benevola della messa in atto della violenza, ad esempio con pensieri del tipo "lo fa perché mi ama" o "è colpa mia se si arrabbia". Questo concetto psicologico e sociale descrive l'atteggiamento per cui una persona minimizza o tollera la violenza subita, spesso percependola come un atto di protezione o inevitabile conseguenza di un rapporto affettivo “cosiÌ€ grande”. A questa dissonanza si aggiunge il fenomeno del "trauma bonding", ossia il legame traumatico, in cui la violenza è alternata da momenti di apparente affetto e fittizio pentimento da parte dell'abusante in cui la vittima viene maggiormente agganciata e per cui tale ciclo crea una dipendenza emotiva che rinforza il legame, spingendo la vittima a sperare in un cambiamento e a rimanere nella relazione. Il cervello, in risposta agli atti di "riconciliazione", rilascia dopamina e ossitocina, i cosiddetti "neurotrasmettitori e ormoni dell'amore", rendendo cosiÌ€ il distacco ancora più difficile.

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Uno dei modelli utilizzati per comprendere e decodificare episodi di questo tipo è quello del ciclo della violenza e delle fasi del maltrattamento di Lenore E. Walker, psicologa americana, tra le prime ad introdurre il concetto di “ciclo della violenza”, inteso proprio come uno stato di assoggettamento e manipolazione della vittima. Tale ciclo può essere descritto come un processo distruttivo e inarrestabile che imprigiona la vittima in una spirale di abusi ripetuti e sistematici da parte del partner. Lo schema della Walker consente di comprendere meglio le dinamiche della violenza di genere, articolandosi in tre fasi principali e consecutive. La prima fase è quella relativa all’ accumulo della tensione. In questa fase iniziale si verificano atti di violenza psicologica, quali denigrazioni, umiliazioni e insulti rivolti alla vittima con l’intento di mortificarla. Al crescere della tensione, la persona maltrattata cerca di evitare conflitti e di assecondare il partner violento, sperando cosiÌ€ di placarlo e prevenire ulteriori episodi di aggressività. Tuttavia, questi tentativi risultano vani, piuttosto l’intensitaÌ€ della violenza aumenta in modo graduale. La seconda fase è quella tipica dell’espressione della violenza o del maltrattamento e si contraddistingue con una crisi acuta, avvenendo un’escalation dell’aggressività del partner fino a tradursi in violenza, esso perde cosiÌ€ il controllo e arriva al compimento di atti di tipo fisico. Talvolta il partner può arrivare ad utilizzare anche la violenza sessuale come mezzo per affermare il proprio dominio e potere sulla vittima che sentendosi priva di risorse, non oppone resistenza, o per timore che la situazione possa ulteriormente degenerare, o perché crede di essere in qualche modo la causa del comportamento aggressivo. In ultimo vi è la fase cosiddetta luna di miele, di cui accennato sopra, questa corrisponde a quel momento di calma apparente in cui il carnefice mette in atto un comportamento del tutto opposto a quello avuto fino a tale momento, tanto da far credere alla vittima che sia cambiato davvero. Questa fase termina quando dalla calma si passa inevitabilmente di nuovo alle vessazioni, dalle piuÌ€ subdole alle piuÌ€ esplicite. L’uomo violento cerca di legittimare le proprie azioni scaricando la responsabilità dei suoi gesti aggressivi sulla donna.

Un altro ostacolo psicologico è la riduzione dell'autostima. L'abuso, in particolare quello psicologico, mina progressivamente la percezione di sé della vittima. Attraverso critiche costanti, svalutazioni e manipolazioni, l’abusante costruisce un'immagine negativa della vittima che, nel tempo, viene da essa interiorizzata e questa inizia a credere di non valere abbastanza o di non poter vivere senza il partner e il senso di impotenza si radica, limitando sempre di piuÌ€ la possibilità di cercare aiuto o di pensare ad una via d’uscita. Infatti, un altro elemento chiave risulta essere proprio la paura, che puoÌ€ manifestarsi come o paura fisica, ossia il timore di subire ritorsioni o ulteriori violenze in caso di separazione, ma anche come paura dell’ignoto.

Difatti la violenza prolungata riduce la capacitaÌ€ dell’individuo di immaginare una vita diversa da quella che vive, portandola ad una forma di "impotenza appresa", concetto che introduce Seligman nel 1975. In questo stato la vittima arriva a credere che qualunque tentativo di fuga sia destinato al fallimento, rafforzando cosiÌ€ l'inerzia. In questi casi, l’isolamento sociale gioca un ruolo veramente cruciale, gli abusanti infatti spesso allontanano la vittima da amici, familiari o colleghi, rendendo cosiÌ€ difficile ricevere sostegno esterno o accorgersi di possibili situazioni di pericolo. Inoltre, la mancanza di una rete di supporto aggrava la sensazione di solitudine e di dipendenza che si innestano sempre di più, spingendo la vittima a rimanere nella relazione per evitare l’abbandono totale. Risulta fondamentale riuscire ad identificare per tempo quei segnali predittori della violenza e di tali dinamiche per uscirne il prima possibile, limitando ogni tipo di danno irreversibile per le vittime, ma anche attenzionando l’adulto maltrattante al fine ultimo di una presa in carico funzionale ad un percorso di cura personalizzato che sia in grado di rilevare le problematicitaÌ€ e affrontarle nei giusti tempi, luoghi e modalità.

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In base alla sua esperienza, quali segnali o comportamenti possono aiutare a identificare situazioni di rischio prima che la violenza diventi evidente o grave?

Come precedentemente accennato, riconoscere i segnali di una relazione potenzialmente violenta nelle fasi iniziali è fondamentale per prevenire l’escalation verso forme di abuso piuÌ€ gravi. Spesso, la violenza non si manifesta in modo improvviso, ma emerge gradualmente attraverso comportamenti che, sebbene possano sembrare innocui o giustificabili, rappresentano segnali di allarme. Un primo indicatore di rischio, talvolta molto accettato e poco attenzionato risulta essere il controllo eccessivo. Inizialmente questo controllo puoÌ€ essere mascherato come interesse o preoccupazione, ad esempio frasi come "perché non mi hai risposto subito, dove sei stato?" possono sembrare inizialmente espressioni di interesse, ma prolungate nel tempo possono tradursi in richieste ossessive che limitano la libertà personale. Oppure il partner può cercare di monitorare i social media, i messaggi e le telefonate, invadendo la sfera privata della vittima. Un altro segnale significativo in tale contesto è la gelosia immotivata ed estrema, mentre una leggera gelosia può apparire normale, una gelosia patologica porta il partner ad isolare la vittima da amicizie e contatti esterni, sentendosi essa sempre in difetto nell’effettuare qualsiasi tipo di azione che possa anche solo lontanamente indurre ad un sentimento di gelosia da parte del partner. In alcuni casi si manifesta attraverso accuse infondate di tradimento o malafede, atte a giustificare comportamenti restrittivi e controllanti. La svalutazione costante è un importantissimo campanello d’allarme, poiché in una relazione sana i partner si sostengono a vicenda incentivandosi nelle loro attività, passioni o volontà, ma in una dinamica abusante, l'abusante tende a denigrare o minimizzare i successi della vittima. Commenti come "senza di me non ce l’avresti fatta" servono a minare l'autostima e a creare una dipendenza emotiva, ovvero un tipo di abuso psicologico spesso sottile e che progredisce a piccoli step nel tempo, rendendosi così di difficile riconoscibilità per la vittima. La rapidità nella progressione della relazione è un segnale di rischio, questo poiché gli abusanti tendono a voler "accelerare" il processo di coinvolgimento emotivo, ad esempio spingendo per una convivenza precoce da cui possono trarre maggior controllo della persona, sfruttando anche il conseguente allontanamento da amici e parenti. Questa intensità può sembrare una manifestazione di passione, ma in realtà nasconde un mero desiderio di possesso. In questo campo gioca un ruolo centrale la manipolazione emotiva, gli abusanti spesso utilizzano la colpevolizzazione per giustificare i propri comportamenti inappropriati. Frasi come "se non mi avessi fatto arrabbiare, non avrei reagito cosiÌ€" spostando la responsabilità dell'abuso sulla vittima, creando confusione e alimentando cosiÌ€ il loro senso di colpa, a volte fino a far credere che siano loro il problema. Lo stesso isolamento sociale di cui si è parlato sopra, risulta significativo in tal senso, quando il partner scoraggia o vieta incontri con amici e familiari, suggerendo che "non capiscono la relazione" o che "vogliono intromettersi"; si tratta di un chiaro tentativo di ridurre le risorse esterne di supporto della vittima. Ripeto, riconoscere questi segnali in fase iniziale può fare la differenza. Affrontare questi comportamenti apertamente, cercare supporto da amici o professionisti e, se necessario, allontanarsi prima che il ciclo della violenza si instauri, rappresentano passi fondamentali per prevenire situazioni più gravi. La consapevolezza e l’informazione rispetto allo sviluppo di questi meccanismi sono gli strumenti chiave per proteggere sé stessi e gli altri.

RICORDO IL NUMERO ANTIVIOLENZA E STALKING 1522 E IL SEGNALE DI RICHIESTA DI AIUTO.

LA FORZA NEL RIUSCIRE AD UTILIZZARE TALI STRUMENTI PUÒ TRADURSI IN SALVEZZA E LIBERTAÌ€.
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Come la violenza psicologica, spesso meno visibile, influisce sulle vittime rispetto a quella fisica, e quali strumenti e approcci terapeutici possono essere utilizzati per aiutare le vittime a riconoscere e affrontare questa forma di abuso? 

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La violenza psicologica è una forma di abuso subdola e pervasiva, spesso più difficile da riconoscere rispetto alla violenza fisica, ma altrettanto – se non più – devastante per le vittime. Mentre la violenza fisica lascia segni visibili sul corpo, quella psicologica si insinua nella mente erodendo lentamente l’autostima, la fiducia in sé stessi e la percezione della realtà, perciò uno degli effetti più evidenti della violenza psicologica è il progressivo annientamento dell’identità personale. 

La vittima viene costantemente svalutata, umiliata e criticata, portandola a dubitare del proprio valore fino a sentirsi totalmente inabile anche difronte alle situazioni più semplici. Frasi come “non vali nulla” o “senza di me non sei nessuno” diventano la colonna sonora della relazione, penetrando in profondità e ridefinendo l’autopercezione della vittima. E cosiÌ€ anche altri meccanismi manipolativi che intaccano non solo la percezione di sé, ma anche l’autoefficacia dell’individuo. Questo logoramento continuo crea una sorta di prigione mentale, rendendo difficile immaginare una vita al di fuori della relazione abusante. A differenza della violenza fisica, che può suscitare una reazione immediata di difesa o di fuga, l’elemento cruciale della violenza psicologica è la gradualità del meccanismo con la quale avviene, conducendo cosiÌ€ la vittima in modo quasi naturale a normalizzare l’abuso. Come prima detto, l’abusante alterna momenti di violenza a gesti di affetto e pentimento, creando un ciclo di confusione emotiva che genera dipendenza affettiva, è questo che mantiene la vittima legata all’abusante, anche quando il dolore diviene insopportabile. 

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La violenza psicologica può avere conseguenze profonde sulla salute mentale, tra le più comuni vi è l’ansia, la depressione, il disturbo post-traumatico da stress (PTSD) e sintomi psicosomatici. La costante tensione e l’incertezza generano uno stato di ipervigilanza, lasciando la vittima in uno stato di allerta continua, come se dovesse difendersi da un pericolo imminente, e questo stress cronico può compromettere la capacità di concentrazione, la memoria e il sonno, influenzando negativamente la qualità della vita quotidiana. Per aiutare le vittime a riconoscere e affrontare questa forma di abuso, è essenziale un approccio che integri diversi strumenti terapeutici. La terapia cognitivo- comportamentale (CBT) si è dimostrata particolarmente efficace, poiché aiuta a identificare e modificare i pensieri negativi e distorti che l’abuso ha radicato. Attraverso la CBT, la vittima impara a distinguere i comportamenti abusivi, a ridimensionare il senso di colpa e a ricostruire un’immagine positiva di sè. Un altro approccio utilizzato in alcuni casi risulta essere la terapia focalizzata sul trauma, che permette di elaborare le esperienze dolorose e di ridurre i sintomi del PTSD. 

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Tecniche come l’EMDR (Desensibilizzazione e Rielaborazione attraverso i Movimenti Oculari) si sono rivelate utili per ridurre l’impatto emotivo dei ricordi traumatici, facilitando il processo di guarigione. Ricordiamoci però, che ogni persona funziona nel suo modo unico e specifico e per tale ragione ogni situazione è a sé stante e così lo diviene anche il tipo di percorso psicologico da intraprendere. Ad esempio, i gruppi di supporto giocano un ruolo cruciale nel percorso di recupero, poiché condividere la propria esperienza con altre persone che hanno vissuto situazioni simili, aiuta le vittime a sentirsi comprese e meno sole, ed è nel conforto e nel confronto con altre storie che la vittima riesce a riconoscersi, come se questo fungesse da specchio attraverso cui vi si può vedere con maggiore chiarezza la propria situazione grazie il racconto degli altri, rafforzando cosiÌ€ la consapevolezza e la motivazione necessarie per intraprendere il cammino verso l’uscita e la libertà. 

 

Infine, è fondamentale lavorare sull’empowerment e sull’autonomia personale. Spesso, la violenza psicologica si accompagna a una forte dipendenza oltre che emotiva anche economica dall’abusante ed aiutare la vittima a sviluppare nuove competenze, ricostruire una rete sociale e raggiungere l’indipendenza economica è un passo essenziale per rompere definitivamente il legame con l’abusante. La violenza psicologica, proprio perché invisibile, richiede uno sforzo collettivo per essere riconosciuta e contrastata. Ed è necessario sensibilizzare non solo le vittime, ma anche la società nel suo complesso, affinché possa svilupparsi una maggiore consapevolezza e capacità di intervento a tutto campo. La fuoriuscita da questo tipo di abuso è possibile, ma richiede tempo, supporto e soprattutto la convinzione che, anche nelle situazioni più buie, è possibile ritrovarsi e ritrovare la via della luce. 

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